Accoglienza, parola di speranza

di Giandomenico Cortese

 

        Il muro e la porta. L’esclusione e l’accoglienza. La bellezza, lo stupore della comunicazione, della relazione, dell’incontro. Forse non basta solo un tweet per comunicare, non è sufficiente un sms per mettersi in dialogo.

Talvolta basta, c’è bisogno di un sorriso, di una stretta di mano, di tendere una mano, di uno sguardo, piccoli-grandi gesti che cambiano il mondo.

 

     La storia di questa nostra comunità civile, prima ancora che di quella religiosa, è nutrita di ascolto, di dialogo, di partecipazione, di accoglienza.

Giorgio La Pira, il sindaco “santo” di Firenze, era solito dire che le città, i paesi “sono vivi”, quando sa offrire, per tutti “un posto per pregare, un posto per amare, un posto per lavorare, un posto per pensare, un posto per guarire”.

 

     Li abbiamo tutti, e per tutti, questi “posti”, case per le famiglie, officine, scuole, ambienti per le cure, luoghi per esprimere i propri culti e le proprie pratiche di fede, nel nostro paese?

Chi ci ha preceduto nella vita ha saputo accogliere orfani e disabili, deboli e soli, ha saputo dare assistenza ed istruzione, ha favorito opportunità di lavoro agli immigrati, ha mandato missionari e missionarie nel continenti più lontani per aprire orizzonti di fiducia.

Certo, nel tempo, non sono mancate contraddizioni e incomprensioni, disattenzioni e ingiustizie, segni di fragilità.

 

     Ma scorrendo, ancora una volta, “Rosà, note per una storia”, il libro di Mons. Giovanni Mantese, pubblicato quasi quarant’anni fa, nel 1977, ed i suoi cenni, le notizie su fede, tenacia, concordia, partecipazione comunitaria, troviamo tracce di una storia lineare, senza sussulti, senza svolte brusche, senza percorsi a ritroso nella quale ognuno si è potuto sentire accolto e partecipe, ed ha trovato spazio vitale e tempo per capirne ed accettare regole di convivenza.

 

     È preziosa e saggia la comunicazione che richiama la nostra identità, che favorisce ed accompagna la nostra appartenenza. Anche per questo diamo fiato a “Voce Rosatese”, convinti che sia aria da respirare, aria di casa nostra.

Qualcuno azzarda dire che la stessa verità è, per sua natura, comunicazione. Non una pietra preziosa da mettere in tasca, ma un mare in cui navigare, possibilmente insieme.

      Oggi troppa comunicazione è frammentazione, approssimazione, è la malattia delle solitudini. Disgrega, non aiuta ad accogliere.

 

      Paolo VI, il Papa tanto amato e venerato dal “nostro” Card. Sebastiano Baggio,

diceva a questo proposito “Bisogna saper esser antichi e moderni, parlare secondo la

tradizione, ma anche conformemente alla nuova sensibilità. A che cosa serve dire quello che è vero se gli uomini di questo secolo non ci capiscono?”.

Lo sforzo di capirci, appunto, di ascoltarci, di accoglierci, così come siamo, risulta sempre più imprescindibile e vitale.

 

     Proviamo a parlare al nostro cuore. Proviamo ad ascoltare le parole vere.

In una sua lettera pastorale alla comunità milanese, trent’anni fa, l’allora Arcivescovo Carlo M. Martini, scriveva: “Vorrei farmi tuo compagno di strada: ascoltare le domande vere del tuo cuore, confessarti le mie. Questo è importante: non è possibile trovare e dare risposte, se non si sono riconosciute le domande. Una “regola di vita” vorrebbe anzitutto essere un tentativo di dare risposte a domande vere (o forse, più modestamente, l’indicazione di un tracciato, lungo il quale cercare e incontrare risposte vere)”.

Egli ammoniva sulla “invadenza dell’io”, sulla “perdita dell’ingenuità”, sulla “via più difficile” che è imparare a vivere con noi stessi, a riconoscere per essere riconoscenti, a coltivare il dialogo, a farsi prossimo, ad essere coscienza vigile nella società, a concepire l’educazione come restituzione dei beni, e dei doni, ricevuti, allo stile della sobrietà.

L’accoglienza è speranza di comunità. Scegliersi l’ospite è un avvilire l’ospitalità.

 

     La storia insegna che quasi mai è stato il pane ad andare verso i poveri, piuttosto i poveri ad andare là dove si crede di trovare il pane, per condividerlo.

Per questo, guardandoci attorno, nel minuscolo scorcio di mondo nel quale ci muoviamo, travolti dalla globalizzazione, certi che nessun uomo è piccolo, parliamo di accoglienza come di opportunità, di partecipazione.

Solo così l’accoglienza è parola di luce, è il canto che non muore, e ci è compagna nell’intonare, di nuovo insieme, la ballata della speranza.

 

 

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