Con riconoscenza, gratitudine e fiduciosa, consapevole attesa

di Giandomenico Cortese

 

[dropcap style=”font-size: 60px; color: #1e6bbd;”] N[/dropcap]on erano tempi facili quelli della seconda metà del Settecento.

Consapevoli di una eredità importante, stiamo cogliendo la

bellezza, la meraviglia di un passaggio di testimone.

E ci stringiamo insieme, per vincere le solitudini. Ci aiuta, e rassicura, ancora una volta, quel Papa Giovanni Paolo I che, nella sua missione episcopale, praticava la “pastorale dell’avvenimento”. Qualcuno lo ricorderà ancora, giusto cinquant’anni fa, nel 1965, Vescovo di Vittorio Veneto, giunto a Rosà su invito dell’allora Nunzio Apostolico in Brasile, Sebastiano Baggio, nel triduo di riflessioni per accompagnare l’elevazione a Duomo della “nostra” Chiesa Arcipretale.

Già quando era Patriarca a Venezia, Albino Luciani, scriveva agli “Illustrissimi” di ogni età e di ogni parte del mondo. Pubblicava sul “Messaggero di Sant’Antonio” i suoi pensieri, le sue “lettere”.

Un giorno ricorse ad una frase de “I Promessi Sposi” per rivolgersi al suo autore, il “Don Lissander”, Alessandro Manzoni. La riprese dallo stesso romanzo. E’ un messaggio che viene bene oggi, a tranquillizzare pure noi: “Dio – si legge – non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”.

Facciamo nostro il pensiero, nel momento in cui la comunità si stacca con tristezza da don Giorgio e accompagna con gaudio e speranza don Angelo, in quella continuità di fede, pronta all’accoglienza, che ha caratterizzato la gente di Rosà, comunità in cammino, tradizionalmente e strettamente legata ai suoi pastori.

Nel franco rispetto dell’autorità, ai suoi Arcipreti ha sempre chiesto di essere guida prudente, saggia e generosa, fontana pubblica a cui potersi abbeverare, sorgente di alimento, parola che indica con umiltà, coraggio e creatività la via della verità, relazione di esperienza per una vita che mai si ripete, piuttosto si rinnova.

Siamo certi: ogni prete passato da queste parti ci ha portato tutti nel cuore.

Giusto quarant’anni fa, nella sua “Evangelii Nuntiandi”, Papa Paolo VI ricordava che il mondo di oggi, l’uomo contemporaneo, ascolta più volentieri i testimoni dei maestri.

Testimoni e maestri insieme sono stati i parroci di Rosà nel

corso dell’ultimo secolo da quell’Apollonio Maggio entrato a

Sant’Antonio Abate nel 1895, per andare poco dopo Arciprete a Schio e da lì, nel 1910, essere eletto Vescovo e Principe di Ascoli Piceno, da Angelo Celadon, entrato il 12 ottobre del 1901 per restare fino al 1920, e via via gli altri, il dinamico Luigi Filippi  (tra noi dal 1920 al 1943), Giovanni Albiero, presente per soli tre anni, dal 3 gennaio 1944 al 5 agosto 1947, quando venne nominato Arciprete della Cattedrale, l’indimenticato Mario Ciffo, e quindi Bruno Piubello, Mario Erle, Giorgio Balbo, fino ad Angelo Corradin.

Sono stati e restano grandi animatori della misericordia.

Li ricordiamo con devozione, soprattutto con riconoscenza.

Ci sono stati compagni di viaggio, in prima linea nelle nostre cordate, con le doti ed i talenti di cui ciascuno è portatore, formatori di coscienze, con un cuore grande, capaci di ascolto, di parole utili, di gesti fraterni, in grado soprattutto di accogliere tutti, pieni di tenerezza nella fermezza, di attenzioni singolari verso le disincantate giovani generazioni, la vera ricchezza di questa nostra società, protesi in quell’attesa del “lasciate che i piccoli vengano a me” che è sorgente della loro missione sacerdotale, amorosamente attenti al percorso di ognuno ed evangelicamente esigenti in ogni fase del cammino.

Con loro accanto, in ascolto di una Parola che annuncia il Regno, tocca i cuori, convoca il popolo, è stato facile, quasi naturale il “farsi prossimo”, mediare, accogliere con disinvoltura, aprire le porte al dialogo, interrogarsi sulle crisi di qualità, cogliere la verità nella carità.

Memori allora di un grande passato, fiduciosi nel camminare, costruire, confessare insieme il futuro – come invita a fare Papa Francesco – ci stringiamo l’un l’altro, in una interminabile catena che non discrimina alcuno, imparando a commuoverci della

semplicità e della umanità che nobilita l’uomo, sempre.

È pieno di tenerezza lo sforzo del pastore che è stato posto davanti al gregge -per riprendere una immagine evangelica-; il suo cuore si commuove quando vede le proprie pecore stanche e sfinite, quando vede la sua gente colpita negli affetti, nella indifferenza, nella esclusione, nello scarto, afflitta da tante ferite nascoste, compressa dal dolore, dalla mancanza di cure, in ginocchio per sofferenze da questioni materiali.

Forse lo abbiamo dimenticato troppo in fretta. Come avrebbe detto Papa Wojtyla “ci vuole il fiuto di capire che questo è il tempo della misericordia”.

È questo il tempo della speranza, la più birichina delle virtù.

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