Le ferite dell’anima: la letteratura recuperante

 

di Fabrizio Parolin

 

     “All’interno di una trincea capisci veramente chi sei e capisci chi sono i tuoi compagni, ma anche i tuoi nemici.

Il primo desiderio di guerra si è spento in breve tempo, distrutto e ricoperto da un mare di neve e fango e da una pioggia di granate; la testa sta diventando ogni giorno più pesante e inizio a farmi delle domande sul perché di tutto questo.

Le mani, i piedi, il torace, le gambe, le braccia sono bloccate dal freddo e l’unico aiuto che ci danno dai quartieri generali si chiama cognac, ne basta un sorso per riprendere forza dentro e fuori, ma quando l’effetto si esaurisce torna tutto come prima.

Mi ritrovo in questo buco sotto terra da più di sei mesi e guardo con compassione alle persone che mi circondano, sono dei fantasmi come me che non ne possono più.

Cento metri più avanti ci sono loro, i nostri nemici che ogni tanto rispondono a qualche colpo di fucile; poi nelle notti serene li sentiamo cantare cori incomprensibili, ma che sembra assomiglino ai nostri, allora provo anche per loro una certa simpatia e so che un giorno si tornerà tutti a casa.

Ho capito una cosa in questi mesi difficili: la guerra non è fonte di gloria come credevo quando son partito, ma una fabbrica di morte e sangue.

Solo ora capisco quanto sia importante vivere.”   (Anonimo)

 

Le parole volano via, ma gli scritti restano.

Questo non è solo un semplice detto, ma una realtà, un dato di fatto che ci trasmette un messaggio profondo: sono passati cento anni dall’inizio della Grande Guerra e la nostra conoscenza dell’evento è legata strettamente alle numerose

testimonianze scritte che ci sono giunte direttamente dalle trincee.

Non solo quindi grandi opere letterarie come “Un anno sull’Altipiano” di Lussu, ma più semplicemente testimonianze “minori”, come quella sopra riportata, scritte da soldati semplici che ci hanno tramandato un enorme patrimonio storico su quel catastrofico evento bellico.

Un archivio straordinario che si arricchisce di anno in anno e che ci ha permesso di recuperare il passato, trasmettendoci una visione della guerra dal basso, sul campo, una visione umile, con gli occhi stessi di persone che si sono ritrovate in situazioni di grande sofferenza e violenza e che hanno sfogato la loro disperazione in fogli di carta spediti ai propri famigliari.

L’aspetto più interessante di questi scritti è proprio legato alla loro “purezza” non mascherata e macchiata dalla retorica di alcune opere di regime, basate e fondate invece su forzati ideali patriottici che hanno trasmesso un’immagine distorta e poco reale dei soldati.

Troppo spesso sono state minimizzate e taciute le sofferenze e le violenze, ma anche il dissenso manifestato contro assurde decisioni che piovevano dall’alto; a tal proposito il concetto di patria venne utilizzato come strumento di propaganda per spingere migliaia di giovani ad un atto estremo nel quale essi stessi non si riconoscevano.

L’iniziale testimonianza anonima evidenzia quanto detto finora e si distingue da molte altre non solo per il linguaggio, ma anche per l’utilizzo di un termine di straordinaria profondità: mi riferisco a simpatia, una parola che oggi viene utilizzata con un significato differente rispetto all’origine lessicale che essa possiede; deriva infatti dal greco (syn patia) che significa “soffrire insieme”e così inserita in questo contesto ci conduce ad una riflessione sulla condivisione del dolore provato dai soldati di entrambi gli schieramenti.

“Uniti nella diversità e nella sofferenza” sembra essere il messaggio principale simboleggiato anche dal fatto che molto spesso nei luoghi delle grandi battaglie, le due bandiere si trovano nella stessa asta, una accanto all’altra.

Questo senso di condivisione ha ispirato numerose poesie di Giuseppe Ungaretti, combattente volontario durante la Prima guerra mondiale sul Carso e autore-simbolo che ha descritto le sofferenze patite, la caducità della vita e l’angoscia della morte.

Qui di seguito riportiamo “Fratelli”, una poesia scritta nel 1916 che affronta questa tematica:

 

Fratelli

Mariano il 15 luglio 1916

 

Di che reggimento siete

 fratelli?

Parola tremante

nella notte

 

Foglia appena nata

nell’ aria spasimante

involontaria rivolta

dell’uomo presente alla sua

fragilità

 

Fratelli

 

La parola “fratelli” suona come la reazione dell’uomo consapevole della precarietà della vita, ossia della propria fragilità che ritorna anche nel finale della struggente poesia “Veglia” che descrive in modo drammatico una scena di morte dentro una trincea.

Fragili e feriti nell’anima erano anche gli alpini che affrontarono anni più tardi la disastrosa campagna di Russia sulle rive del fiume Don.

Una situazione di sofferenza inaudita dalla quale è nata una delle pagine più belle della nostra letteratura, lo scrittore si chiama Mario Rigoni Stern e l’opera è il famoso “Sergente nella neve”:

 

“Corro e busso alla porta di un’isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati con la stella rossa sul berretto. Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. […]. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata.-Spaziba- dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. -Pasausta- mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo ed io esco.”

 

Il passo descrive la disperazione di un uomo dopo la battaglia di Nikolaievka del 26 Gennaio 1943; un soldato allo sbando in cerca di cibo e accolto in modo fraterno da coloro che sarebbero dovuti essere i suoi nemici, ma che in realtà in un contesto drammatico come quello, erano diventati suoi fratelli, i suoi compagni (altra parola dal forte valore

etimologico, dal latino cum panis, ovvero colui con cui si divide e condivide il pane e il cibo).

Ancora una volta quindi la letteratura diventa uno strumento essenziale per recuperare non solo la storia, ma in questo caso anche la memoria di eventi passati che il tempo avrebbe

irrimediabilmente modificato o cancellato del tutto, allora possiamo ribadire che: “Verba volant, scripta manent” le parole volano via, ma gli scritti restano per sempre.

 

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