Testimonianza di una pandemia… in Italia

di Gianfranco Frigo

 

“Settembre 2020” Dobbiamo tornare alla fine di febbraio 2020 per riprendere la cronistoria della pandemia nel nostro paese. Il comitato tecnico scientifico del ministero della salute definiva la situazione epidemiologica di Lombardia, Emilia Romagna e Veneto “complessa”. Nella nostra regione un paese adagiato sui Colli, Vò Euganeo, raggiungeva rapidamente la notorietà per avere il primo morto in Italia da coronavirus. Da allora una sequenza di aggiornamenti da parte dei media con i bollettini quotidiani della protezione civile che informavano sul numero di contagi, di morti, di ricoveri negli ospedali e nelle terapie intensive.

Tutto accadeva velocemente e come operatori sanitari cercavamo di capire come agire, seguendo le disposizioni e gli aggiornamenti che emanavano le autorità sanitarie. Eravamo di fronte a un fenomeno globale, imprevisto, a cui nessuno era concretamente preparato.

Uno dei primi problemi è stata la carenza dei sistemi di protezione individuale del personale sanitario in prima linea, nei pronto soccorso ma anche nei reparti di emergenza. Ricordo la difficoltà iniziale di reperire materiale a sufficienza per la propria e altrui protezione (mascherine, visiere, camici).

Per un certo periodo anche l’ospedale di Cittadella, presidio in cui lavoro, è stato individuato come Covid-Hospital. Si erano infatti resi necessari molti posti letto per i pazienti che giungevano in pronto soccorso con sintomi di febbre, tosse e insufficienza respiratoria per ricovero e assistenza nella fase acuta.

Eravamo pronti e motivati a fare la nostra parte, tuttavia eravamo anche consapevoli del rischio a cui andavamo incontro. Rischio di potersi infettare nonostante il puntuale rispetto dei protocolli ospedalieri.

Il lavoro era assai stressante, il “contatto” con le persone malate ridotto allo stretto indispensabile. Le “barriere” fisiche utilizzate creavano dei limiti alla comunicazione tra operatori sanitari e pazienti. La voce era “ovattata” sotto le mascherine e le visiere ed è stato necessario inventarsi nuovi sistemi di comunicazione con i malati, utilizzando soprattutto gesti, mimica, occhi; tuttavia, nonostante questo sforzo, si percepiva lo stesso la solitudine vissuta dai pazienti, a cui era impedito di vedere i familiari durante l’isolamento e la malattia. Non è stato facile mantenere la giusta distanza emozionale di fronte a queste situazioni di sofferenza e solitudine.

Terminato il turno di lavoro si presentavano altre preoccupazioni, quelle nei confronti dei propri familiari. Eravamo esposti ad un potenziale contagio e noi stessi potevamo essere portatori del virus. Alcuni colleghi riducevano al minimo i ritorni a casa, altri si isolavano in qualche ambiente separato della propria abitazione “trasferendosi” in taverna o in garage. Personalmente mi sono autoimposto un distanziamento dai familiari e ho cercato di portare anche in casa la mascherina. In seguito, quando si sono intensificati i controlli con i tamponi, essendo sempre negativi la tensione in casa si è pian piano allentata. È stato, tuttavia, necessario un cambiamento delle nostre abitudini.

Se vogliamo trarre una lezione dal fenomeno globale della pandemia, non ancora conclusa, diverse possono essere le riflessioni da fare.

Abbiamo “riscoperto” innanzitutto la nostra vulnerabilità e le nostre fragilità umane, di fronte ad un virus il cui nome, rieccheggiando una sorta di regalità e potere superiori, ci ha dichiarato guerra: il coronavirus. E proprio di una guerra si è trattato, basti solo pensare al numero di vittime soprattutto fra le persone anziane e fragili ma anche tra il personale sanitario, medici, infermieri, tecnici che non si sono risparmiati di fronte alla malattia e se ne sono andati da eroi. La pandemia ha rimesso i riflettori anche sulle criticità del nostro sistema sanitario pubblico, in primis il sottofinanziamento (circa il 10% in meno in termini di spesa rispetto alla media europea) con carenza di medici, personale e presidi in particolare nell’ambito dell’emergenza. Sono ancora vive nella memoria le testimonianze di medici, in particolare di altre regioni, trovatisi drammaticamente a scegliere a quale malato riservare l’ultimo respiratore rimasto poiché gli altri erano tutti occupati.

Di fronte a tutto ciò si rimane allora sconcertati quando vengono espresse delle posizioni, fortunatamente limitate, di negazionismo verso il fenomeno della pandemia. E viene allora da chiedersi: com’è possibile che si siano dimenticate così in fretta le immagini drammatiche delle file di camion dell’esercito che trasportavano le bare in varie regioni poiché gli impianti di cremazione erano sovraccaricati?

Uno slogan ripetuto e quanto mai attuale “una sola umanità, un solo pianeta” deve essere una guida per la svolta di prospettiva che dovremo adottare in futuro, con l’impegno a ridefinire anche i fondamenti della nostra convivenza. Non sarà più come prima, è un’altra dichiarazione che si sente ripetere da molti, sfiduciati di fronte all’andamento della pandemia.

Allo stato attuale, siamo alla fine di settembre, i dati epidemiologici dei contagi in Europa (Spagna, Francia, Inghilterra) sono poco incoraggianti. È necessario che ogni individuo, consapevole del fenomeno che ancora stiamo vivendo, sia promotore dei nuovi comportamenti raccomandati (adeguato distanziamento sociale, igiene delle mani, utilizzo delle mascherine). Solo così potrà attenderci un futuro, si spera prossimo, di ritornoalla “normalità”. Ma con l’impegno e la responsabilità di tutti.

 

 

Dott. Gianfranco Frigo, Dirigente Medico

Azienda ULSS 6 Euganea, Cardiologo-elettrofisiologo, U.O.C. Cardiologo Ospedale di Cittadella.

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