di don Francesco Peruzzo
[dropcap style=”font-size: 60px; color: #1e6bbd;”] Q [/dropcap]uando ripenso al mio cammino vocazionale non è facile fare un punto preciso della situazione. Una vita in parrocchia come animatore ACR e non solo, un lavoro sicuro e ben pagato, interessi e relazioni che almeno in apparenza non potevano in alcun modo ricondurre ad una scelta di questo tipo. Almeno non secondo il mio metro di misura.
A un certo punto è accaduto “qualcosa”… ma non qualcosa di nuovo, non un ripensamento che mi facesse dire “ah, finora ho sbagliato tutto, adesso rimedio e cambio strada”. Quando si parla di vocazione, di chiamata, nessuno sa bene a che cosa si riferisce un termine come questo. È semplicemente Qualcuno che ti parla per voce della tua stessa vita, di tutte quelle vicende belle e brutte, esperienze e persone incontrate, situazioni e sentimenti vissuti che, uniti da un invisibile filo segnano una direzione ben precisa, ti prendono per mano e danno fuoco al desiderio di realizzare compiutamente tutto ciò che già sei.
Questo è in sintesi il mio vissuto. E senza giri di parole posso dire anche come mi sia opposto a tutto questo, soprattutto quando ho cominciato ad avere i primi “sintomi”, ossia circa un paio d’anni prima di entrare in seminario, tutti accolti con una risata prima ed energicamente estirpati poi, perché, in fondo, “cosa vuoi che vada a cambiare qualcosa nella mia vita ormai alle soglie dei quarant’anni…”. E invece eccomi qua. E il bello è che dopo tutto ciò non mi sento affatto cambiato… sono sempre quello di prima, forse con un pizzico in più di consapevolezza sulle cose. È questo che sento particolarmente significativo quando penso alla vocazione: il coraggio di affidarsi. Affidarsi a Colui che per primo è sempre fedele, perché a ciascuno di noi Egli ha dato un compito su misura. Un compito grande ma non insostenibile, perché affonda le proprie radici in noi, nella nostra stessa storia. Ma attenzione: non siamo chiamati a viverlo come se si trattasse solo di una cosa privata, in modo solitario ed eroico. Camminiamo insieme agli altri perché apparteniamo ad un unico corpo.
Camminiamo con e per gli altri perché siamo tanti “regali” che continuamente ci facciamo reciprocamente. La gratuità è davvero il ritorno alla realtà, alla consapevolezza che possiamo e dobbiamo coglierci come dono, rileggere il nostro “esserci” come offerta gratuita e disinteressata a tutti coloro che ci stanno a fianco. Alla fine questo è il senso ultimo di ogni comunità, nella quale ciascuno è chiamato a dar fiato alla propria personale scelta vocazionale qualsiasi essa sia: dalla famiglia al sacerdozio, dal servizio alla testimonianza di fede sul mondo del lavoro… e questa è una delle sfide della Chiesa del Terzo millennio: quella di ri-creare una rete di solidarietà nella fede e nella carità che ci porti ad essere tutti corresponsabili gli uni degli altri, al di là della smania di potere o del prestigio dell’istituzione in sé. In poche parole si tratta di rispondere a un dono d’amore, fattoci senza prezzo. In questa direzione dovrà andare anche l’azione educativa delle nostre parrocchie: non tanto un “inculcare, mettere dentro” determinati valori nella testa delle persone (o dei nostri ragazzi in modo particolare), ma al contrario un “tirarli fuori”, perché già esistenti ma a volte sepolti sotto una montagna di cose che non servono. Serve pazienza… e carità, ossia voler bene alla persone in quell’anticipo di simpatia necessario affinchè tutti si sentano accolti: la chiave di tutto è la relazione.
Sono consapevole che la via da percorrere per vivere a pieno come Egli vuole non è certamente facile… e io mi sento solo all’inizio del cammino. Ringrazio veramente di cuore tutti quelli che mi hanno sostenuto in questi anni di formazione; la mia famiglia nella quale sento tuttora riposte le radici della mia vocazione; i cari amici che i primi giorni di giugno hanno organizzato e festeggiato con gioia sincera la mia ordinazione e la prima messa a Rosà; tutti coloro che continuano a starmi vicino nel corpo e nello spirito ogni giorno. Il Signore ci accompagni sempre perché riusciamo tutti ad avere sempre, in ciò che viviamo, un cuore sempre docile alla Sua volontà.