La famiglia di campagna anni ’50( ricordi alla rinfusa)

di Claudio Grego

 

 

Negli anni ‘50, il nostro vivere seguiva i ritmi dell’attività agricola, con le sue stagioni, i suoi riti, i rintocchi del campanile, i silenzi, nella condivisione e nella solidarietà. Era ancora vivo il ricordo di una guerra inutile e disastrosa, la donna da poco aveva ottenuto il diritto di voto, non c’erano il divorzio, l’aborto, la convivenza prematrimoniale. Mancavano i servizi igienici nelle case, le strade asfaltate, l’illuminazione, il telefono, l’ acquedotto, il gas, le fognature, le automobili e quindi tutte quelle comodità quali gli elettrodomestici, le informazioni, l’accesso al lavoro, al cibo e alla salute, che abbiamo oggi.

Non essendoci molte abitazioni, ma casolari piuttosto ampi, le coppie novelle si dovevano “adattare” ad andare ad occupare una stanza liberata a proposito e a convivere ovviamente coi genitori del marito, cognati scapoli e quasi sempre qualche cognata nubile. Solitamente erano le donne a lasciare la propria casa natale, nel caso contrario, ma abbastanza raramente, il maschio entrava come cuco o da capeàn nella casa della moglie e per questo veniva tacciato come un succube o poveraccio (“in casa sua comanda a Francia’’, si diceva ironicamente).

La donna rimane la figura centrale nella famiglia di allora, sia come suocera (madona) che come sposa, figlia o madega, anche se vivente in famiglie patriarcali dove il suocero (missiere) parlava spesso coi silenzi e disponeva e rispondeva di tutto l’andamento della vita familiare, dal lavoro nei campi alle spese, dalle piccole cose all’onore del casato.

Matrimonio ovviamente solo in chiesa, con pochi fiori e i vestiti da utilizzare anche dopo la cerimonia, niente parrucchiera, bagno in stalla. Per risparmiare sui costi, a volte il matrimonio veniva celebrato lo stesso giorno per due fratelli o sorelle e, per non togliere forze ai lavori agricoli, la stagione preferita era l’inverno. Il pranzo di nozze avveniva di solito in casa dello sposo con abbondanza di cibo nostrano; invitati, ovviamente, i compari (anche quattro) che poi si dividevano il compito di diventare santoli di battesimo o di cresima e, data la consueta numerosa prole, venivano tutti accontentati e poi contraccambiati. Il viaggio di nozze consisteva in una o due notti trascorse in una città vicina, magari ospiti di parenti o amici.

Le donne, specie le spose che entravano nella nuova famiglia, avevano quasi solo doveri e dovevano subire la  sottomissione, lavorare nei campi, dove si sobbarcavano anche i lavori più disagevoli.  Dovevano inoltre gestire il cibo quotidiano nel rispetto del bilancio familiare, talora al limite della sopravvivenza, provvedere al vestiario  (“girare” i vestiti, rattopparli ), assistere fino alla morte gli anziani,  spesso ammalati e/o inletài, che vivevano nella casa (gli ospedali non erano luoghi in cui si andava per morire e le case di riposo non c’erano o si evitavano ), portare il lutto (sei  mesi almeno per la suocera ed un anno per il marito o figlio o fratello).

Dovevano partorire in casa e come primogenito  un maschio (pena commenti a dir poco umilianti), procreare, allevare ed educare figli senza limite di numero. Chi nasceva prima dei nove mesi dal matrimonio era senz’altro detto settimino. E le nostre brave donne erano capaci di tenere il conto per tutte le compaesane in dolce attesa! Non c’era pericolo che il parto avvenisse prima del matrimonio  e rarissime erano le donne madri. La levatrice (la Lussieta o la Elsa) solitamente si occupava di ogni cosa inerente il parto cui assisteva il marito, mentre i figli già nati venivano distratti o  ospitati dai vicini parenti. Il parto, non di rado, causava anche la morte della donna per complicazioni igienico sanitarie. La presenza di parecchi figli minori costringeva poi il padre a cercare una buona donna che si prendesse cura di loro, ovviamente previo matrimonio religioso. Il battesimo dei figli avveniva di norma entro una settimana dalla nascita per timore che morissero senza sacramento e la mamma non poteva partecipare al rito perché  considerata impura per quaranta  giorni dopo il parto. Infatti, trascorsa tale quarantena, Don Anselmo, attrezzato di stola, accoglieva la neo mamma sulla porta della chiesa e la benediva non senza un’abbondante aspersione d’acqua santa.

       Non c’era l’asilo parrocchiale e, pertanto, i bambini erano da tenere d’occhio tutto il tempo, molto spesso con l’aiuto delle persone anziane di famiglia o del vicinato. Le donne non entravano nei bar, si confessavano da Don Anselmo (senza ricevere l’assoluzione quando non compivano i casti doveri coniugali, anche se avevano già cinque o sei figli e potevano rischiare la vita per un ulteriore parto), andavano a Messa alle 5,30 e di domenica pomeriggio alle Funzioni (catechismo) per non essere additate come poco attente alla vita cristiana.  Qualche altro aspetto della vita di campagna: niente ferie, pranzi al  ristorante, spese nei negozi, spostamenti; ci si accontentava dei venditori ambulanti, delle sagre e feste di paese, e di qualche gita parrocchiale. D’estate solo la sposa, se gracilina o affetta da tosse cajina, veniva mandata a “prendere le arie” in altopiano e lo sapeva poi tutto il paese.

E i maschi,  i papà, i nonni in queste grandi famiglie patriarcali cosa facevano?

Gli uomini sani lavoravano soprattutto i campi, sfaticavano manualmente senza l’aiuto delle macchine, allevavano animali da stalla e da cortile. Pochi lavoravano “sotto padrone” (per esempio in conceria, spesso “fuori regola”, come braccianti sotto i Dolfìn e altri proprietari terrieri del tempo (i Favaretti, i Mesirca, …) oppure pulendo le rogge… .

La donna, come si diceva, era  sottomessa, doveva spesso tacere e lasciare l’ultima parola ai suoceri, cui doveva dare del vu, e spesso alla cognata madega, chiamando mama la madona, ovvero la suocera.  Solo in quell’unica stanza, riservata infine alla coppia di sposi, poteva avvenire quella confidenza che appianava dissidi, incomprensioni, pregiudizi e mantenere così o ripristinare l’armonia coniugale. L’abbandono della casa coniugale da parte della moglie era un fatto rarissimo se non inesistente, in campagna. Se una donna parlava di tornare  a casa da sua madre , poteva prendersi anche una buona dose di botte perché ne poteva andare di mezzo la reputazione delle famiglie e delle parentele; ma queste sono altre storie e per fortuna rarissime.

Le famiglie così forgiate riuscivano a tenersi unite, a far sentire ai figli una voce sola, ad educarli con l’esempio, con rinunce, con silenzi, col lavoro, con le devozioni cristiane, con le buone amicizie, nella condivisione delle fatiche, con la compassione nei lutti e per le disgrazie.

Per ragioni di spazio tralascio testimonianze, aneddoti e fatti di cui sono stato testimone con ricordi sulla situazione igienica, alimentare, economica, la miseria e l’alcoolismo che pure avevano il loro peso in alcune  famiglie di campagna.

E noi bambini, in quelli anni 50? Ho trascorso un’infanzia serena, a volte spensierata, a volte rischiosa per certi comportamenti “selvaggi” ma seguito e amato da tutta la famiglia. Per fortuna le difficoltà economiche e quasi tutte le problematiche e usanze sopra descritte hanno sfiorato appena la mia infanzia. Porto infatti con me i ricordi di una vita sana e ricca sotto ogni profilo, materiale e spirituale, ma soprattutto lontana dallo stress e dai condizionamenti attuali.

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