Quando la comunicazione aveva il suono delle campane

di Giandomenico Cortese

 

[dropcap style=”font-size: 60px; color: #1e6bbd;”] N[/dropcap]on erano tempi facili quelli della seconda metà del Settecento.

Ma i rosatesi d’allora, con determinazione e coraggio, decisero di innalzare, accanto alla chiesa parrocchiale, il loro possente campanile, alto nella campagna.
Era il 17 marzo 1756 quando i 181 capifamiglia vennero chiamati a decidere l’ampliamento del cimitero, posto allora accanto alla chiesa parrocchiale, e a gettare le basi di un nuovo campanile.
Non tutti furono d’accordo (22 contrari, 4 astenuti), ma il progetto partì.
Tormentati gli ultimi decenni della Serenissima Repubblica, guidata dal Doge. Vennero più tardi gli Austriaci ad autorizzare i lavori di edificazione, che proseguì lenta nel breve Regno d’Italia seguito alla invasione di Napoleone, prima del ritorno dell’Impero di Vienna quando, finalmente, nel 1817, il campanile venne ultimato, maestoso nei suoi 72 metri di altezza, Arrivarono così i primi bronzi, fusi per assicurare, coi loro rintocchi, l’armonia e la melodia delle loro voci ed offrire informazioni e comunicazioni all’intero paese.
Mons. Giovanni Mantese, nelle sue note per una storia di Rosà (raccolte nell’ormai lontano 1977), racconta, con dovizia di particolari, quei tempi, utili a cogliere l’identità e l’appartenenza di una comunità forte nella fede, tenace e coraggiosa nella ricerca di concordia.
Quell’ardito campanile resta a simbolo e significato di una “Voce Rosatese” che non teme la ruggine delle stagioni che si succedono e vedono, oggi, protagonisti nuovi nella vita del paese.
La storia di arricchisce di esperienze, e noi tentiamo di raccontarle in queste pagine, con lo stupore e la speranza che una comunità come la nostra non manca di vivere e di trasmettere.
Unica ambizione questa per costruire relazioni di umanità, di una umanesimo civile, fondamentale nel rispettare un passato generoso, fondamenta salde per un futuro che alimenti condivisioni.
“Libertà solamente chiedo e non essere favola alla gente”, cantava con energia e determinazione padre David M. Turoldo, frate, Servo di Maria, poeta autentico, figlio di questo enigmatico Nordest.
P. Turoldo offre, nella sollecitazione alla responsabilità, uno stimolo a chi comunica con le parole e obbliga a dare segni di speranza, ragioni di vita, proiezioni di salvezza, nel ribadire lo splendore della verità.
Verità e libertà, dunque.
Vorremmo fosse questa la nostra funzione: capire la realtà, per poter spiegare e raccontare, non dimenticando di avere un’anima.
Oggi non è facile descrivere l’attualità, aggrapparsi alle esperienze vissute, offrire spazi e momenti di aggregazione e partecipazione.
Resta il bisogno di aria fresca, tonificante, di recuperare valori che rilancino il nostro essere e il nostro agire.
Verrebbe da richiamare Thomas Elliot, poeta e drammaturgo, naturalizzato britannico, il quale si chiedeva: “Dov’è la saggezza che abbiamo perduto con la conoscenza? E dov’è la conoscenza che abbiamo perduto con l’informazione?”.
Oggi, più che mai, si tratta di sostenere e di aiutare la libertà degli uomini con una informazione che introduca il dato, racconti la realtà e agevoli il giudizio.
Diceva un poeta francese, Paul Valery: “Tra due parole scegli sempre la minore”, perché è nella semplicità pacata che ama avvolgersi e rivestirsi la verità.
Le parole necessarie, quelle che incendiano i cuori, che illuminano le coscienze, che rallegrano la vita (pensiamo ai messaggi di Papa Francesco), nascono il più delle volte dalla armonia dei silenzi, sicuramente non dalle grida.
Nel tempo del frastuono, della cascata di informazioni di Internet, del vortice dei new media, degli strumenti della tecnologia più avanzata, degli I-phon, dei tablet, di Facebook, della comunicazione limitata alle 140 battute di Twitter, fatichiamo a costruire relazioni semplici, dirette.
Non siamo più in grado di guardarci negli occhi, e sognare insieme.
Noi vorremmo continuare con serenità a comunicare con voi, nostri preziosi lettori, convinti come siamo che scrivere è pur sempre un atto d’amore.
“La libertà non è star sopra un albero – cantava Giorgio Gaber – non è neanche avere un’opinione. La libertà non è uno spazio libero. La libertà è partecipazione” e aggiungeva “Vorrei essere libero, libero come un uomo”…
Libertà e responsabilità non sono contrapposte. Tutt’altro.
La crescita della libertà deve essere crescita della responsabilità.
La crescita della libertà non può consistere semplicemente nel sempre più vasto allargamento dei diritti individuali. Per questo ci piace pensare al nostro paese come una comunità plurale.
La stessa storia della liberazione, che ritroviamo ripresa in testimonianze, in questo numero della nostra “Voce”, è sempre e soltanto una storia di responsabilità crescente.
Joseph Ratzinger, da Cardinale e da Papa, da studioso qual è stato, ha più volte sottolineato come “la libertà, per essere compresa correttamente, deve essere sempre pensata insieme con la responsabilità”.
La responsabilità etica va oltre l’agire, e l’agire strettamente individuale, è una responsabilità che si estende al sociale, a quanto fa pure il mio vicino.
Ricordo una definizione di Paolo VI nella sua enciclica “Populorum Progressio” (il n. 34): “L’uomo non è veramente uomo che nella misura in cui, padrone delle proprie azioni, e giudice del loro valore, diventa egli stesso autore del proprio progresso”

Il saluto del nostro arciprete don Giorgio

     NUMERI…

Dare i numeri non è proprio il massimo dei complimenti che uno può ricevere. Eppure anche i numeri, spesso nella loro solitudine, sono spesso da prendere sul serio, anche se poi la reazione ad essi arriva fin lì.

Magari sono numeri ‘vecchi’, da aggiornare quanto prima o da confrontare con le nostre sensazioni ed esperienze. L’83% degli italiani si considera religioso o afferma di credere in Dio, ma soltanto il 61,4% dichiara di credere in una vita dopo la morte. Se poi questa vita ‘al di là’ assume il volto del paradiso scendiamo al 50,4%, e peggio ancora tocca all’inferno (41,8%). Sembra così che per molti credenti la fede in Dio si riduca o consista in un legame generico, ‘largo’, senza attese circa la vita eterna.

Non più mistero, la morte è problema, da tacere o far tacere, per non urtare nessuno, così si può parlare della morte degli altri, ma non della propria. Chi legge i giornali locali di frequente comincia dalla pagina degli annunci di morte e anche le soste davanti alle bacheche sparse per le nostre vie con i necrologi sono altrettanto frequenti. Nel segno della Pasqua possa risuonare anche quest’anno l’annuncio del Natale, anche e soprattutto per coloro che desiderano il cielo pur senza troppo crederci.

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