La gioia del SI per sempre

di Marina Bizzotto

 

 

 

Maggio 2016, festa di Pentecoste. Consacrazione definitiva di Valentina Guidolin.

 

Quali erano i tuoi sogni di adolescente?

Sono Valentina Guidolin (in paese Caboa),

nata 34 anni fa e vissuta fino al 2005 a Rosà, in zona Borgo Tocchi, infermiera di professione ora missionaria della Comunità missionaria di Villaregia. Da adolescente avevo tante cose per la testa, dal farmi una famiglia all’andare a vivere in montagna: una vita semplice, in mezzo alla natura, volevo fare un lavoro a contatto con la gente e amavo organizzare delle feste. Una caratteristica che mi marcava era che cercavo di costruire rapporti con ogni uomo che incrociavo: dalla compagna di classe fans di Marilyn Manson, alle ragazze degli Istituti Pii, dai giovani che incontravo nel pub dove lavoravo il sabato sera, ai giovani del coro…

 

Quando e come Dio ti ha chiamata alla vita consacrata?

Si dice che la chiamata di Dio non si sente ma si riconosce, perchè la voce è presente da sempre nel cuore, ma solo nel tempo si discerne. Forse infatti era nascosta nel mio desiderio di donarmi concretamente costruendo una famiglia, come nel mio impegno con i ragazzi dell’acr e nella gioia di partecipare al coro, nel desiderio di relazioni oneste e gratuite. Penso che il momento in cui ho aperto gli occhi è stato in occasione di un viaggio di volontariato che ho fatto in Perù, dopo la mia laurea. L’esperienza  del bisogno della gente incontrata di amore gratuito e di uno sguardo di speranza mi aveva interrogato. La possibilità di vivere una fraternità universale mi ha entusiasmato e mi ha messo alla ricerca della sorgente, per imparare ad amare davvero. Ho riconosciuto la mia vocazione quando ho capito che l’amore con la a maiuscola viene da Dio, che ne è la fonte e il modello: la consacrazione è infatti una vita vissuta a servizio dei fratelli, con un dito che indica il cielo.

 

Hai lasciato tutto per Dio. Obbedienza, povertà e castità, una scelta folle nella mentalità odierna…

Cosa hai provato nell’abbraccio commovente con i tuoi genitori, in quel momento di addio prima della consacrazione? Com’è  la gioia che viene da Dio?

Nella domanda c’è già la risposta: ho lasciato per Dio, non per gusto della povertà, non perchè amo la solitudine ma per Dio. La vita consacrata dice che “Dio basta”, Dio è l’essenziale e per questa perla preziosa si è disposti a lasciare altre cose; un po’ come qualcuna delle nostre mamme che ha lasciato Rosà per seguire il marito all’estero o un papà che conosco che alla nascita del figlio ha venduto la sua moto amata per passare più tempo a casa. Si lascia per un altro tesoro, “ho lasciato” anche i miei genitori affettuosi, ringraziando per quello che sono per me e allo stesso contenta di seguire i desideri del mio cuore. Nell’abbraccio che mi hanno dato prima di lasciarmi sola davanti l’altare mi sono commossa, perchè sono cosciente che la mia scelta costa per loro cara, ma che comunque mi stanno benedicendo. A convincerli è stata soprattutto la gioia che hanno visto illuminare il mio volto nell’impegnarmi con i più poveri. È una gioia particolare, perchè non è strettamente legata a una sensazione di benessere o sicurezza, ma è serenità, è energia, è il dono di un cuore ricolmato, è la certezza di aver ricevuto una promessa.

 

Qual’è il carisma della Comunità di Villaregia? Cosa prevede il 4° voto che ti richiede proprio la tua Comunità?

I pilastri del carisma della mia comunità sono Comunione, Missione e Provvidenza. Come si sa un carisma non è una scoperta, ne la proprietà di una comunità religiosa, ma un aspetto della realtà di Dio che ha affascinato particolarmente la vita dei suoi membri e che quindi si impegnano a testimoniare. Tra i tanti nomi di Dio parliamo di Dio Trinità, un Dio che si presenta in tre persone distinte in relazione. Il desiderio della Comunità è quello di essere una “famiglia” dove le relazioni sono “a immagine della Trinità”. Il quarto voto dice l’impegno costante a costruire con chiunque comunità e annunciare questo Dio che è e ci chiama alla comunione.

 

Ora ritornerai in Costa D’Avorio, cosa ti aspetta? Come ci si sente ad essere diversi e stranieri?

Ritornerò molto presto in Costa d’Avorio dove mi aspetta una grande parrocchia (circa 80.000 abitanti), una giovane chiesa con tanta vitalità e tanto bisogno di formazione (i catecumeni quest’anno erano più di 1600). Lì abbiamo varie opere sociali; una scuola di alfabetizzazione e due centri medici che io sto seguendo in particolare; dei progetti di sviluppo per bimbi, mamme e giovani come ad esempio “il tuo domani nelle tue mani” per cominciare e accompagnare o piccole imprese, commerci o lavori di artigianato. In Costa d’Avorio il cattolicesimo è una minoranza e molti attendono l’annuncio di un Dio Comunione. Io sostengo che la Chiesa è un mezzo e non un fine quindi non lavoro per fare dei proseliti, ma per dare una possibilità a ogni fratello incontrato di alzare lo sguardo per conoscere la dignità alla quale Dio ci chiama.

   Sì, qui vivo da straniera, ben accolta ma straniera. Questo significa dover restare in profondo ascolto della realtà, perché molti parametri interpretativi saltano e anche se il cuore dell’uomo resta lo stesso, il modo di esprimersi è molto diverso. Allo stesso tempo non posso abbandonare i miei costumi per copiare i loro: sono una persona adulta con un compito educativo, quindi devo arrivare a comprenderli per poi scegliere se aderire.

Per esempio, secondo alcune culture, uomini e donne mangiano separati, in silenzio e in tempi diversi per norme

sociali e igieniche, ma in comunità abbiamo scelto di condividere la maggioranza dei pranzi tutti insieme missionarie e missionari, volontari e amici per far crescere la fraternità. Abbiamo scelto altri momenti per vivere distinti uomini e donne e altre norme di igiene (come usare le posate e il piatto individuale). Altro esempio: a casa mia mi è stato insegnato di non lasciare mai niente nel piatto, ma qui ho notato che alcuni papà e mamme lasciano sistematicamente qualcosa nel piatto e poi chiamano i bambini più piccoli per terminare al posto loro. Non so cosa ne pensiate voi, ma io ho avuto bisogno di una spiegazione: mi hanno detto che è un segno di tenerezza e che lasciano apposta l’ultimo pezzetto di pesce o carne. In comunità non abbiamo bambini, ma se mi trovo a mangiare in una famiglia adotto volentieri questa abitudine che in Italia avremmo magari espresso donando una caramella o un abbraccio. Essere stranieri è molto impegnativo per chi arriva, perchè si scontra con i pregiudizi degli altri e ha bisogno di amici per comprendere la realtà ed è impegnativo per chi accoglie perchè si deve avere la pazienza di spiegare, dare motivazioni per far entrare veramente l’altro nella realtà e dargli occasione di esprimersi comunque. Questo dialogo ha però molti frutti, perché aiuta l’ospite e chi accoglie a prendere coscienza delle proprie origini e motivazioni e ci si arricchisce della creatività con la quale altri popoli hanno cercato di esprimere le stesse emozioni che viviamo a tutte le latitudini. Essere straniero è anche fare l’esperienza di essere un po’ vulnerabile e richiede umiltà e qui in Africa dove il bianco è stereotipato prepotente e dalla vita facile, è molto importante presentarsi come fratelli umili, aperti e capaci di dialogo, capaci di apprezzare con semplicità le ricchezze culturali e sociali.

Unita al coro di tutti i nostri missionari rosatesi sparsi nel mondo, spero di essere una vostra degna ambasciatrice!

 

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